giovedì 14 giugno 2018

Enrico Mancini nasce dalla costola di un mio dolore - Intervista a Mirko Zilahy

Il suo ultimo romanzo Cosi crudele è la fine (di cui potete leggere la nostra recensione qui) è la conclusione di una trilogia edita da Longanesi. Oltre ad essere un traduttore di grandi romanzi, ha conquistato il suo pubblico con E’ così che si uccide. Abbiamo intervistato per voi Mirko Zilahy (o Zilahi)

Mirko con il suo ultimo romanzo, Così crudele è la fine, si chiude la trilogia dedicata al commissario Mancini. Come nasce questo personaggio e perché ha deciso di farlo così tormentato?
Il commissario Mancini è un uomo solido e sicuro di sé, finché le sue sicurezze si perdono nel saluto mancato alla moglie morente. Gli studi in Criminal Profiling e la carriera a caccia degli assassini seriali in giro per il mondo perdono senso, quando Marisa scompare dalla sua vita. Da allora, parliamo di "È così che si uccide", attraverso La Forma del buio e fino a questo ultimo capitolo, Enrico Mancini si mette sulle tracce di tre serial killer che colpiscono Roma. Al contempo è in fuga dai suoi fantasmi e in cerca di un equilibrio impossibile. Il tormento interiore di Mancini, che comunque si trasforma notevolmente nel corso della trilogia, è l’unico tratto autobiografico che ho messo nel mio personaggio. Diciamo che il commissario è nato come una costola di un mio lutto elaborato con grande difficoltà.

Parliamo della “sua” Roma. Quando si finisce di leggere la trilogia si ha anche una nuova consapevolezza della capitale che da turisti o semplici visitatori è difficile avere. È tutto voluto o desiderava solo scrivere dei bei gialli ambientati in posti più o meno conosciuti?
Volevo raccontare una Roma magica e reale, onirica e tagliente. La città contraddittoria che mette assieme Colosseo e Gazometro, San Pietro e mattatoio di Testaccio, i parchi e le rovine più misteriose della sua storia millenaria.

Così crudele è la fine è esattamente il romanzo che molti dei suoi lettori si aspettavano come finale, come libro conclusivo e come riscatto di Enrico Mancini. Come ci è riuscito?
Proprio riscatto non direi, ma non voglio togliere il piacere della lettura al mio pubblico. Diciamo che avevo in mente una parabola precisa della vicenda personale del commissario Mancini, ma anche quella dei personaggi della squadra (Walter, Caterina, Antonio, Giulia e in un ceto senso di Niko) e dei serial killer, nonché di Roma. Un finale non rassicurante ma neppure cupo e dolente per un libro che è bagnato da una intensa, e se lo dice Donato Carrisi c’è da credergli, luce nera.

Lei scrive bene, è indubbio, ma il suo punto di forza sono le descrizioni che sembrano più piani sequenza cinematografici che brani di un libro. Ha mai pensato di fare anche lo sceneggiatore?
Grazie per il complimento. In realtà io parto sempre dalle parole, dai suoni, le immagini vengono dopo, sono evocate dalla magia delle parole. Fare lo sceneggiatore è un mestiere all’opposto dal mio punto di vista. Nonostante ciò sono curiosissimo e mi piacerebbe imparare tecniche di narrazione e chissà che non capiti presto l’occasione…

Per chi non lo sapesse lei è anche un bravissimo e apprezzato traduttore. Domanda frivola: cosa la diverte di più, scrivere o tradurre i libri di altri?
Sono due mestieri simili. La traduzione è un lavoro stremante e bellissimo, in Italia non è però un mestiere apprezzato abbastanza. Sia dal punto di vista dei riconoscimenti (un traduttore è la voce dell’autore che traduce e merita visibilità), sia da quello dei compensi. Per me è un’esperienza necessaria anche per la mia scrittura, perché ti “accorda” come uno strumento con lo scrittore che traduci e ti insegna a dare voce alle immagini, ai suoni, alle parole, alle storie e ai personaggi che hai dentro.

È vero che il suo ultimo lavoro è appena uscito ma ora di cosa scriverà? Ha in mente un’altra trilogia con nuovi protagonisti o cambierà del tutto genere?
Sto scrivendo il prossimo romanzo ma non posso dire niente se non che sarà un… Harmony! Ovviamente scherzo. Voglio ringraziare voi e i miei lettori a cui dico solamente: stay tuned

Notturno Salentino, l'attrazione da controluce aveva bisogno della parola - Intervista a Federica De Paolis

Il suo ultimo romanzo è uscito da neppure un mese ed è già un successo di pubblico e critica perché Federica De Paolis ama la scrittura in maniera viscerale e questo ai lettori arriva immediatamente e in maniera inconfutabile. In più in questo lavoro c’è anche la sua personale passione per il cinema e per l’incantata terra del Salento. L’abbiamo intervistata per i lettori de La Bottega del Giallo e ci siamo fatti raccontare molte cose interessanti, qui potete anche leggere la nostra recensione del suo romanzo.

Notturno salentino è costruito quasi come un film dove il lettore si immerge nella trama come uno spettatore in una sala cinematografica. Cosa l’ha ispirata a questa scrittura e a questi affascinanti echi da noir americano?
Sono appassionata dalla nera, come si dice in gergo: penso che le storie di cronaca siano il riflesso della società, lo specchio angoscioso del paese. E sono affascinata dal cinema noir americano, ho un’intera collezione di DVD, di cui mi sono nutrita per anni. C’è un film in particolare che mi ha ispirata, si chiama The Lady Vanishes, di Alfred Hitchcock nel 1938, di cui poi è stato fatto un remake diretto da Anthony Page. Da qui, è nata l’idea di far sparire completamente un personaggio funzionale alla storia. La dissolvenza di qualcuno è molto affascinante. È un lutto che non si può piangere ma incarna anche il sospetto feroce di un potenziale tradimento.

Parlando di Livia, di Cynthia e di Klara le sue protagoniste femminili non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra eppure nel suo romanzo si finisce, inevitabilmente, a parteggiare per ognuna di loro, a tratti anche a immedesimarsi con il loro stato d’animo. È una sua scelta autoriale fare in modo che alla fine ne escano malamente sono gli uomini?
È la prima volta che uso un’io narrante femminile, ho scritto quattro libri prima di questo e ho usato prevalentemente una voce maschile, mi aiutava a prendere la giusta distanza da me stessa. Qui, questa miriade di donne, di età e anche culture diverse in un certo senso, rappresentano delle schegge di uno specchio intero, una sola donna con tutte le sue complessità, fragilità, paure ma anche scaltrezze. Però non penso che siano solo gli uomini ad uscirne male, ci sono molte figure femminili piene di contraddizioni, che agiscono in modo opaco, non lineare. Anzi, trovo il personaggio maschile principale, il compagno di Livia, Boris: un uomo esemplare.

Lei è romana eppure il suo romanzo è intimamente intriso di atmosfere, descrizioni, sapori e colori della Puglia da far innamorare anche chi in quei posti ci è nato e cresciuto. Come ci è riuscita?
Sono andata in Puglia a trent’anni la prima volta, è un luogo che mi ha incanta, al punto – dieci anni fa – di costruirci una casa. È un posto dal quale sono sopraffatta: soprattutto nello sguardo. Il Salento coinvolge tutti i sensi, per gli odori, la luce abbagliante, gli ulivi che sembrano esseri umani. Ne sono soggiogata e anche intimamente impaurita. Ed è per questo che ho cercato di raccontarla, sono attratta dai controluce.

Ha dichiarato più volte di avere una vera e propria passione per la scrittura, cosa che si evince chiaramente da ogni suo lavoro letterario, a tratti, però, leggendo i suoi gialli non si può fare a meno di notare anche una certa propensione alla psicologia umana, ai moti dell’animo che accompagnano tutti i suoi protagonisti come succede appunto a Livia in Notturno salentino, quanto di lei c’è allora nei suoi personaggi?
I miei libri partono sempre da dei personaggi reali, in questo senso il mio sguardo è sempre rivolto all’esterno: osservo, ascolto per poi cercare di dar vita a dei profili autentici. Tutto passa attraverso di me, tutto è filtrato dalla mia sensibilità. Nella fattispecie in questo libro, sono quasi totalmente identificata con la protagonista. Ho avuto due bambini come lei, ho la sua età e mi sono ritrovata ad aver a che fare con il mondo delle tate, donne di culture diverse, con sogni e bisogni completamente differenti dai miei; queste convivenze forzate mi hanno fatto riflettere, volevo raccontare anche i rapporti di potere, mutuo soccorso, fiducia e sospetto che si instaurano in queste situazioni. L’interazione culturale tra le donne, e questo l’ho già detto – il paradosso secondo il quale, affidiamo i nostri figlia a delle donne, che per sopravvivere hanno abbandonato i loro.

Sta già pensando al nuovo libro o per adesso si gode solo il successo di questo?
C’è una piccola storia di cronaca che mi ha solleticato, sono coinvolte due famiglie, e dei bambini. Ho letto un libro l’anno scorso che mi ha stregato, Ninna nanna di Leila Slimani, ha vinto il premio Goncourt. In quel romanzo aleggia un’atmosfera incredibile, come si respirasse un’aria plumbea e il tempo fosse rallentato dall’imponderabile. Ecco se riuscissi a trovare quella voce, la mia piccola storia di cronaca potrebbe diventare un buon libro.